E’ estate, e si era capito. C’è il sole che picchia, e lo si nota anche percorrendo l’isolato dall’ufficio all’auto parcheggiata. Ma a breve si andrà in vacanza e si potrà pensare, finalmente, ad indossare un copricapo che ci salvi dalle insolazioni. Tolti i cappellini con visiera, da giocatore di basket anni ’80 e ’90 che non è neanche il caso di commentare, lo spunto è valido per esordire su un rapporto conflittuale di amore ed odio che ho sempre avuto per un oggetto a metà tra l’accessorio e l’abbigliamento, dall’indiscutibile fascino: il cappello.
Se infatti trovo che pochi elementi siano eleganti e belli come i cappelli, da un lato, dall’altro tendo a sentirmi ridicolo ogni volta che ne metto uno. E’ un mio limite, lo so, e l’ho sempre attribuito al fatto di non aver ancora trovato la tipologia giusta per il mio capo. Ma per cercare di essere utile, ecco una riflessione molto più esplicita e diretta su giusti costumi per questi mesi caldi.
Non avrai altro copricapo all’infuori di me
Esclusi i cappellini con visiera e le bandane, o altri strani copricapo moderni, la scelta estiva su cosa mettersi in testa, per me, è semplicemente tra due opzioni: niente o un Panama.
La prima scelta è di sicuro la più facile: si inumidiscono i capelli con l’acqua di mare, o li si lascia asciugare all’aria aperta, o comunque si fa in modo di evitare che i raggi solari facciano di noi e della nostra scatola cranica un forno a microonde, e non ci si pensa più. Non c’è bisogno di una pettinatura perfetta se si è in una località balneare ed, anzi, quell’aria un po’ sauvage aggiunge una sfumatura di libertà ad un periodo che dovrebbe essere votato proprio alla libertà dalle preoccupazioni quotidiane.
La seconda scelta invece cade su un cappello che dispone di falda, come i grandi classici invernali che richiamano i meravigliosi e decadenti anni ’30, ma che è particolare sia per materiale che per utilizzo. Rimane ferma la regola assoluta di non indossarlo mai al chiuso (e che per toglierlo la mano deve prendere la cupola, non la tesa): che senso avrebbe? L’educazione ha sempre motivazioni pratiche, all’origine dei suoi dettami, per cui tenere il cappello a casa di qualcuno significa semplicemente mancargli di rispetto, perché al pari di chattare via cellulare con amici lontani è traducibile con un esplicito: “sono qui ma tranquilli, non vedo l’ora di andarmene, per cui non faccio neanche la fatica di togliermelo“.
E se le falde dovrebbero sempre essere un po’ inclinate (quella posteriore sulla nuca verso l’alto e così anche da uno dei due lati, e quella anteriore rivolta verso il basso, quasi all’altezza degli occhi) in questo caso ci troviamo di fronte ad un oggetto che merita tutto il nostro rispetto e che anche per quanto riguarda le tese ha regole a sé.
Il Panama
Dichiarato patrimonio intangibile dell’umanità dall’UNESCO nel 2012, il Panama non nasce nel famoso paese del Sarto, o del Canale, ma in Ecuador: è un cappello di paglia che deriva dalla tradizione Incas prodotto da ormai 300 anni nel cuore delle montagne a 2.550 metri, in una città di nome Cuenca. Il sombrero de paja toquilla ha riscosso grandi successi grazie ai prestigiosi testimonial che l’hanno fatto diventare simbolo di tropici, spiagge bianchissime e vacanze: da re Edoardo VII (di cui avremo modo di parlare spesso in futuro) a Winston Churchill, da Ernest Hemingway a Theodore Roosevelt. Proprio quest’ultimo, che in realtà fu il primo a lanciare il Panama verso il suo destino di status symbol e a conferirgli involontariamente l’attuale nome, nel 1906 ne indossò uno, in occasione di una sua visita ai lavori del Canale di Panama, venendo immortalato sul New York Times. Molti degli operai che lavorarono nel paese centro americano lo utilizzarono per proteggersi dal sole, così quando nel 1914 il Canale diede il via a tutte le sue rotte commerciali fu un attimo esportare in tutto il mondo il cappello bianco più famoso di tutti i tempi.
La paglia di cui sono composti i Panama deriva dalle palme “toquilla”, e la sua qualità dipende da quanto è fine la fibra che si usa: uno dei principali centri di produzione è la città di Montecristi, sempre in Ecuador ma sulla costa. Tutto il processo di lavorazione è fatto a mano ancora oggi e un artigiano difficilmente riesce a superare i dieci pezzi al giorno, per i cappelli di più scarsa qualità (il cui prezzo va a salire da un minimo di 40 euro salendo poi fino ad un massimo attorno ai 10 mila per gli esemplari più raffinati).
E proprio “Montecristi” è la miglior qualità di Panama, che richiede da quattro a sei mesi di tempo per essere lavorato, in un modo per altro molto usurante: l’artigiano lavora immerso in una vasca piena d’acqua in cui viene immersa anche la paglia, che per essere lavorata deve rimanere umida e quindi maggiormente trattabile.
Ora capite perché sostengo che, se proprio volete indossare un cappello per ripararvi dal sole, questo vale la pena di essere preso in considerazione? Certo, se lo fate perché è di moda tanto vale che lo compriate cinese e di plastica, ma se rispettate e apprezzate il lavoro e la storia che stanno dietro ad un accessorio così semplice, pulito, lineare, allora ne vale sicuramente la pena. E con il tempo e le mode ci sono state numerose varianti, dal rigonfiamento sulla parte frontale (optimo crown), alla tesa, alla fascetta. E poi con una camicia azzurra aperta e dei pantaloni bianchi, o anche – se volete essere più formali – con una giacca blu, non venitemi a dire che fa turista-tedesco-panzone, perché allora non avete capito nulla.
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