Scrivo in risposta ad un lettore e caro amico, che mi fa notare: «credo potrebbe essere uno spunto interessante parlare del sempre meno rispettato decoro, anche e soprattutto in caso di abbigliamento, sul posto di lavoro, in particolare negli uffici pubblici. Per varie questioni nell’ultimo periodo mi sono trovato a frequentare abbastanza assiduamente gli uffici della Prefettura di Torino e, ogni volta, aimè, non ho potuto fare a meno di notare quanto il cattivo gusto e le cattive maniere imperino in un luogo che una volta rappresentava una delle massime istituzioni, e il fatto di esservi impiegati era anche probabilmente motivo di orgoglio per chi ci lavorava. Adesso in qualunque ufficio, in particolare se pubblico, sembra che le buone maniere, dal vestire al parlare, siano state dimenticate.»
Sul tema, ci sarebbero un’infinità di cose da dire, che vanno ben al di là dell’etichetta e dell’eleganza, o dell’educazione. Si dovrebbe parlare di uno Stato che fa pietà, sclerotizzato e composto da sessanta milioni di particolarismi, non di abitanti. E si finirebbe a parlar di politica. Lo scontro, spesso doloroso perché ci si trova nella kafkiana impotenza di dover chinare il capo ed accettare quelle briciole di potere che ci vengono scagliate contro da uomini e donne spesso frustrati, è inevitabile. E genera, oltre che fastidio, indignazione; perché non solo aleggia l’inevitabile senso di ingiustizia, no, tocca subirla anche spesso da persone sudate e maleodoranti, oppure cafone e scontrose oltre ogni limite. Non è sempre così, ovviamente, ci sono anche ottimi impiegati, ma questi casi, in qualche modo, si dimostrano sempre i più visibili e riconoscibili quelli peggiori.
Non me ne vogliano i dipendenti pubblici, ma il rilassamento su temi come senso del dovere e spirito di appartenenza li hanno trasformati in una casta blindata nei propri diritti. In orari più favorevoli, in faccende certo poco stimolanti ma anche spesso meglio retribuite del resto del mondo. Ed effettivamente, la “sindacalizzazione mentale” li ha portati a presentarsi in infradito, a fregarsene di chi hanno di fronte, a diminuire al minimo la considerazione per il prossimo e l’amor proprio.
Il consiglio, unico, che posso dare al gentleman, ma anche a chiunque altro, è quello di aver meno possibile a che fare con la burocrazia, delegando oppure pensando ad altro e mantenendo calma e sangue freddo. Umiliare gli umili, di spirito per lo meno, non è mai elegante, né caritatevole.
Di contro, il gentleman è signore sempre, e non cerca il conflitto se non necessario ed inevitabile. Quindi deve sempre, e dico sempre, mettersi nei panni del suo interlocutore. E’ sempre bene partire con un eccesso di cordialità: fare qualche battuta empatizzante, far capire che ci si rende conto della fatica, dell’impegno e delle difficoltà che anche chi è dall’altra parte vive, instaurare un rapporto non solo da automa contro automa, ma – in poche parole – essere signori anche con chi, di primo acchito, ci tratta a pesci in faccia senza nessun motivo. In fondo, parte dell’alienazione con cui ci scontriamo, e dovuta da una componente di cafoneria che questi poveri “sportelli” si vedono riversata da tanti altri cittadini, a getto continuo. Rendiamoci conto che, così come una gentilezza è contagiosa, anche la cafonaggine lo è: ed i dipendenti pubblici, con cui abbiamo a che fare per pochi minuti ogni volta (dopo ore di coda), di cafonaggine devono subirne a livelli che immaginarsi intollerabili è poco.
Colgo però lo spunto per fare un elogio assoluto della divisa. Avete presente quando ci sono quei dibattiti su come ci si debba vestire a scuola, e da un qualche istituto viene l’idea di inserire una divisa standard per tutti, con i cronisti (normalmente di StudioAperto) che intervistano mamme shampiste che si indignano? Ecco. Io sarei per mettere divise d’obbligo a quasi tutti, a scuola (magari differenziando ogni istituto con colori suoi propri) come sul lavoro. Eccezion fatta per i “liberi professionisti” o i dipendenti privati, che dovrebbero avere le “divise” di cui parliamo nel resto del blog, libere come la loro professione, ma non meno regolate da canoni estetici e principi delle altre, vorrei vedere i dipendenti di ogni ente tutti vestiti uguali. Quelli del comune, allo stesso modo dei vigili urbani, abbigliati decorosamente con la loro tenuta maschile o femminile, estiva o invernale. E così via, per tutti quelli che devono per forza aver a che fare col pubblico, e che dovrebbero elevare chi hanno di fronte, invece di entrare in sintonia con i più infimi.
Non possiamo pretendere di trovarci di fronte sempre un sorriso (in un mondo giusto, sarebbe il minimo, ma ci sono troppe implicazioni psicologiche e sociologiche per azzardarlo oggi), ma una forma di decoro minimo sì. E come garantirlo, se non imponendo, sul luogo di lavoro, un dresscode univoco, che sarebbe al tempo stesso “educativo” e migliorativo della situazione generale?
Può essere anche solo giacca e cravatta per l’uomo, e camicetta con almeno mezza manica per la donna. Potrebbe essere una vera e propria uniforme, con tanto di gradi gerarchici che farebbero impazzire di gioia i burocrati più convinti. Ma ci vorrebbe proprio e, per chi come me crede che la forma modifichi la sostanza, rendendo più consapevoli e aiutando ad entrare nella parte, avremmo funzionari amministrativi molto più dignitosi.
Ma se il mio è un pensiero estemporaneo, che difficilmente si realizzerà mai anche per una questione di costi, ci ha pensato John McFarlane, il presidente della Barclays Bank, a fare un primo passo, il 7 agosto scorso, vietando negli headquarters della banca le infradito, anche durante il famoso “casual friday”. La notizia è stata ripresa da diverse testate, anche in maniera erronea in Italia come forse avrete letto sotto l’ombrellone (qui una spiegazione precisa), ma il punto saliente è che in un mondo che gira nel verso giusto, tanto un banchiere quanto un bancario, mai e poi mai dovrebbero farsi balenare in mente l’idea di mettersi ai piedi un paio di infradito per andare in ufficio.
E se lo fanno gli inglesi, che tutto sommato non brillano di stile ed eleganza ma sono molto più legati alla tradizione di noi, non mi stupisco se in giro per le nostre città capiti di trovarsi di fronte spettacoli impressionanti. La nostra, tuttavia, è una battaglia di civiltà del tutto individuale e volontaria: non arruoliamo, accettiamo reclute che si presentano alla nostra porta. Pur con finalità assolutamente divulgativa, non c’è modo per migliorare il malcostume imperante, se non dove si potrebbe con un decreto ministeriale che non arriverà mai. Mala tempora currunt…
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